Il sogno della conquista dell’alta orbita terrestre nel grande periodo dell’esplorazione spaziale, la fine degli anni 60. Nel 1969 il fisico Gerard O’Neill pose la seguente domande ai suoi studenti: “la superficie di un pianeta e’ un buon ambiente per stabilire una societa’ industriale?”.
Una volta ottenuta la risposta “negativa”, O’Neill prospettava coi suoi alunni differenti possibilita’ di stabilire una civilizzazione spaziale.
La condizione di base era che i lavori non dovevano includere le tecnologie inesistenti negli anni 70 e 80, quelle che dovevano essere gia’ disponibili o accessibili in un futuro molto prossimo. E’ in questo contesto che O’Neill arrivava a concepire diversi progetti di citta’ spaziali, la versione piu’ di successo era quelle che si chiamo’ il “cilindro di O’Neill”.
Una vasta struttura in alta orbita, che girando su se stessa si’ da fornire una gravita’ artificiale e suscettibile di essere funzionale a diverse decine di migliaia di esseri umani.
Il progetto di O’Neill e’ stato il luogo di incontro tra la “contro-cultura” e l’alta tecnologia che poi ha dato la stura alla nascita della cybercultura degli anni 90.
Nel 1977. Steward Brand pubblico’ un libro nell’ambito della sua rivista Coevolution (dipendente diretta di Whole Earth Catalog) dedicata alle colonie spaziali. Di fatto un buon numero di leader hippy e post-hippy, come Timothy Leary e Robert Anton Wilson, divennero i supporter incondizionati della conquista spaziale.
Nei cilindri in alta orbita si vedeva il mezzo per creare delle comunita’ che si dedicavano a diverse forme di sperimentazioni sociali.
Negli anni 70, un gruppo di appassionati crearono la L5 Society (L5 indica il “punto di Lagrange 5”, un punto dell’orbita a meta’ strada tra la Terra e la Luna, un luogo ideale per una citta’ spaziale). Tra i membri di L5, si trovano persone che arrivano in un secondo momento, come Chris Langton, inventore del concetto di “vita artificiale”, o Kim Eric Drexler, futuro profeta delle nanotecnologie.
Ma O’Neill non prevedeva solo una migrazione verso l’orbita terrestre, ma pensava anche a delle citta’ che potevano essere una fonte di energia inesauribile alla nostra buona vecchia Terra, consentendo la costruzione di specchi solari in grado di reinviare i raggi presi dalla stella verso una centrale recettrice sulla superficie del nostro pianeta sotto forma di micro-onde con un rendimento ben superiore a quello della cattura classica dei raggi solari, che ricevono solo una parte della luce disponibile.
In effetti un problema maggiore che non il giorno e la notte, che il cattivo tempo, che non la perdita di irradiazioni nell’atmosfera. L’idea fu concepita nel 1968 da Peter Glaser.
Evidentemente, i sogni di O’Neill e Glaser non si sono concretizzati nel tempo. Per lungo tempo, l’idea di un ritorno nello spazio fu esclusa dalle discussioni sul futuro.
Il solare spaziale torna di attualita’. Oggi c’e’ un ritorno su questi argomenti. Senza riprendere l’idea delle citta’ spaziali, la rivista New Scientist si e’ concentrata recentemente sull’idea di “specchi solari”. D fatto, fino a poco tempo fa, la tecnologia sembrava troppo difficile da mettere in pratica.
Nel 1981 la Nasa commissiono’ uno studio di 20 milioni di dollari sulla materia e i risultati non arrivarono ad una conclusione. Secondo la rivista, il peso mostruoso di questi ingranaggi e il prezzo proibitivo per il loro lancio rendevano l’operazione molto difficile.
L’oggetto avrebbe pesato 81.000 tonnellate e la messa in orbita costava 4.000 miliardi di dollari! Tutto questo per rifornire unicamente il nord-est degli Usa… Per cui poco tempo dopo, con la fine della crisi petrolifera, questa ricerca fu resa inutile… fino ad oggi.
Perche’ contrariamente alla crisi degli anni 70, l’esaurimento delle risorse petrolifere non può essere contenuta.
E non sono solo i Paesi occidentali che si interessano al progetto, ci spiega New Scientist. La Cina e la Russia sono anche interessati e soprattutto il Giappone. In effetti, gli eventi di Fukushima hanno rinnovato l’interesse dell’arcipelago del Sol-Levante sulle nuove forme di energia. Un’osservazione interessante perche’ abbiamo gia’ visto in un precedente articolo che questa catastrofe aveva anche fatto precipitare gli investimenti del Paese nell’ambito degli allevamenti verticali.
“L’agenzia spaziale giapponese, la Jaxa, le universita’ di Tokyo e Kobe, cosi’ come Japan Space System hanno messo a punto un ventaglio di percorsi rigorosi per il solare spaziale. Degli esperimenti orbitali sono previsti per l’anno 2020, preparando il lancio di satelliti autosufficienti, in grado di inviare 1 gigawatt intorno al 2030”, precisa il New Scientist.
Sul piano tecnologico, le cose sono cambiate dopo gli anni 80. Si sono notoriamente fatti dei progressi nell’ambito dell’elettricita’ senza fili.
Intanto, nel 1975, la Nasa era riuscita a proiettare 34 kilowatt a 1,5 Km di distanza. Nel 2008, hanno potuto coprire una distanza cento volte maggiore, collegando due isole dell’arcipelago della Hawaii.
E l’universita’ di Kobe e’ gia’ riuscita ad inviare dell’elettricita’ a terra dopo averla prelevata dallo spazio.
Il rendimento delle cellule fotovoltaiche spaziali si e’ ugualmente accresciuto in alcuni anni, passando dal 6% degli anni 50 al 30% di oggi. E secondo Gary Spirnak, Ceo della startup Solaren, un insieme di specchi correlati potrebbe far crescere questo rendimento al 45%.
Resta il problema dei pesi perche’ le tecniche di lancio in orbita non hanno, di per se’, fatto molti progressi.
Per essere fattibile, il prezzo di lancio non dovrebbe eccedere i 150 dollari per chilo.
L’unica soluzione, al momento, e’ di ridurre il peso del sistema. Cio’ a cui si attacca l’universita’ della California, insieme alla Northrop Grumman, la famosa societa’ legata alla Difesa, che si e’ lanciata in un programma di 3 anni con 17,5 milioni di dollari di finanziamenti.
Le Monde